Nicola Mennichelli
Tutto ‘fumo’? Altrochè, le parole sono (ancora) importanti.

Nel mondo del pitching, del coaching e del business in generale, il tema della linguaggio e della buona dialettica è al centro di un dibattito acceso e frizzante. Forse perchè le tecnologie hanno davvero cambiato il nostro modo di parlare, pensare, progettare, anche se paradossalmente non ne abbiamo ancora una conoscenza felice e una padronanza fruttifera. Forse perché a causa di un frainteso uso della tecnologia alcune culture stanno via via perdendo la propria identità, in un clima crescente e inarrestabile di globalizzazione.
Il tema su cui mi voglio interrogare, nasce da un film che ho rivisto da poco, apprezzato (al tempo) da larga parte della critica per via del finissimo humor autoironico e dissacrante sulla moderna società e le politiche di impresa:
Il film in questione è Thank you for smoking, del 2005, con A. Eeckhart, diretto da Jason Reitman (e un cast non del tutto secondario).

La storia è quella di un lobbista perseverante, padre americano e portavoce di una delle più fortunate e dannose industrie del mercato: il tabacco. Il suo ruolo? Vendere tabacco. Alle multinazionali. Ai privati. Ai non fumatori. Vendere. Vendere. Vendere. E a Nick Naylor (A. Eeckhart) vendere riesce molto bene. Quanto meno, lo fa credere al figlio Joey (C. Bright) e a Heather Holloway (K. Holmes), giornalista e giovane reporter, acuta e seducente quanto basta per ‘spogliare’ Naylor dall’ego dei media e della pubblicità, in una relazione di continui secondi fini femminili e professionali.
(Come va a finire!?) Lungi da me, soffermarmi sul film e su un qualche tentativo di buona o cattiva recensione e/o avviare qui battaglie sul fumo, o alcol o armi. Aspetto le vostre (recensioni);) Chissà, però, come si sarebbe comportato Nick Naylor con le sigarette elettroniche nel 2005? (Per non farci mancare un pizzico di ‘curiosità’ da ‘ex fumatore’).
Nick Naylor fa un assunto semplice e irremovibile:
“Micheal jordan gioca basket. Chalrles Manson uccide le persone. Io parlo. Ognuno di noi ha un talento”.
L’aspetto su cui è interessante riflettere è contenuto in questo estratto che, come appassionato di branding e operatore di marketing, mi ha più sedotto. La parola come oggetto di vendita, moneta di scambio e (di fatto) strumento di comunicazione.
Salto i dati e le fonti sul tabacco. Che i numeri sull’industria del tabacco e i relativi danni causati da esso possano impressionare è abbastanza ininfluente, ma mi premeva fare una sorta di promemoria sulle conseguenze create da tale fenomeno vizioso. E che ci sia un giovane Nick Naylor, in ognuno di noi, su questo non c’è altrettanto dubbio. Venditori lo siamo tutti, che ci piaccia o no. Tutti partecipiamo più o meno attivamente al giochino del ‘mercante in fiera’ o delle ‘tre carte’ nella vita. Ma quanti commerciali, venditori, lobbisti, o semplicemente dipendenti, impiegati, addetti e non addetti ai lavori hanno lessico da vendere e una cultura del linguaggio da essere riconosciuto, ascoltato, creduto e perché no, seguito e ricalcato.
Come fa, il famigerato Nick Naylor, a far credere a milioni di americani, che ci sia una morale nel fumo? Per buona parte, sa cosa dire e sa come dirlo.
La verità, non certo la sola, non sta nel ‘cosa’ ma nel ‘come’. Non si tratta sempre e solo di un forte posizionamento del brand, una forte personalità, un forte carattere, ma in ciò che rappresenta quel brand, quel messaggio e quella persona. Siamo davvero ciò che mangiamo? E se fossimo anche ciò che ‘diciamo’ o che 'pensiamo di dire’? Quanto è difficile vendere e sapersi vendere alle persone? Quanto di noi dobbiamo dire o far trasparire per essere chiari e compresi? Quanto c’è di trasmissibile ancora nel linguaggio scritto e in quello parlato? Avere qualcosa da dire e dirlo in modo chiaro e distintivo resta oggi una prerogativa di base, in ogni tipo di attività interpersonale nella quale inciampiamo. Un colloquio, una richiesta, una vendita, una presentazione.

Il linguaggio è cambiato, si. Come per la moda, che pare funzionare sempre “perché cambia velocemente”, così il linguaggio è cambiato nel tempo. Nel corso degli anni abbiamo assistito ad un grande rimescolamento e ridimensionamento della lingua parlata.
Per i motivi sopra citati, globalizzazione, politica, ricambio generazionale. Passano i modi di dire e cambiano le carte del gioco, ma dovremmo ricordarci che valore ha la parola, da qualunque parte arrivi, e renderci conto che è uno strumento gratuito, spesso violentato e abusato politicamente, ma che ha un valore riconosciuto. Bisognerebbe fraternizzare con essa un poco di più (perchè è ciò che ci rende riconoscibili), nonostante il digitale. Farla amica e proteggerla. Adoperarla e studiarla in modo approfondito e meditato.
Le nostre azioni passano anche (se non per la maggior parte) da ciò che pronunciamo e facciamo con le parole. Che sia costruito ad arte o nasca da un talento, il linguaggio è uno sport,e come tale, va allenato ed esibito con disciplina e rispetto. Se la parola è un tratto distintivo dell’essere Umano, forse va preservata, curata, ricercata, bilanciata al mondo delle immagini e degli slogan che ci sommergono. Una parola che va pensata e pesata, come il vero talento umano da preservare.
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